// di Francesco Cataldo Verrina //
Negli Novanta Brad Mehldau, che l’11 luglio 2023 si esibirà in trio all’arena Santa Giuliana, è stato il ragazzo prodigio del pianismo jazz, il tanto atteso erede bianco» di Bill Evans con cui condivide la medesima profondità armonica, la delicatezza del pathos e l’eleganza delle forme. A quanti cercavano di accostarlo anche a Keith Jarrett, il pianista di Jacksonville faceva sapere di essere stato ispirato solo dal modus operandi dal vivo, ma che Jarrett non rientrava nelle sue influenze, le quali, per contro, trovavano un punto di riferimento in Miles Davis, oltre che in Bill Evans. Oggi, Brad Mehldau è un musicista completo e di fama internazionale, capace di giocare su più fronti: nel 2021 si esibito perfino al Festival dei Due Mondi di Spoleto, mettendo in luce la sua formazione classica. Sappiamo bene che la passione e l’interesse per il blues e per il jazz per l’allora giovane Brad, furono successive ai suoi studi accademici che lasceranno sempre uno strascico nel suo modo d’intendere e di eseguire il jazz caratterizzato da un’impostazione più aulica e cameristica. Le due mani che suonano contemporaneamente melodie differenti, sovente sottese da metriche e tempi dispari in 5/4 e in 7/4 ne sono la conferma.
Tutto ciò ovviamente non è mai stata un deminutio capitis, ma piuttosto una possibilità in più di esprimersi a vari livelli. A tal proposito, basta osservare fugacemente la sua parabola ascendente passata attraverso lavori in trio o in gruppo più vicini al post-bop o al jazz tradizionale, le collaborazioni con Charlie Haden, Pat Metheny, John Scofield, Lee Konitz, Charles Lloyd e Wayne Shorter, per poi giungere a lavori più sperimentali, scarni e minimalisti, mostrando la sua migliore verve soprattutto nelle esecuzioni dal vivo, tanto che nel 2004, dopo «Live in Tokyo», la rivista americana Down Beat lo santificò premiandolo come miglior pianista jazz dell’anno. Al netto di ogni considerazione e pur sulla spinta di un certo eclettismo, che l’ha portato a suonare finanche la musica dei Radiohead, di Nick Drake o dei Beatles, Brad Mehldau ha già inciso un sessantina di dischi, tra colonne sonore, album come band-leder, side-man o comprimario.
Per ingannare l’attesa ho deciso di fare alcune considerazione su uno dei dischi più complessi, ma anche più poetici del proteiforme Brad (avrei potuto pescare in acque più agevoli), almeno nel ambito del pianismo in solitaria di tipo contemporaneo, dove molti schemi compositivi ed esecutivi sembrano saltare ed un’infinità di stimoli provenienti dall’esterno raggiungono il cuore del progetto come i tanti affluenti di un fiume. Il disco nasce in una situazione di profonda solitudine e di distacco dal mondo durante il primo periodo della pandemia. «Suite: April 2020», questo il titolo dell’album, uscito il 12 giugno di quell’anno ed i cui proventi, sia del vinile in tiratura limitata, mille copie firmate, che del successivo CD, furono destinati al Jazz Foundation of America’s COVID-19 Musician’s Emergency Fund. Infatti il punto focale di questo album diventano tutti i musicisti che che hanno lottato contro la crisi globale causata dalla pandemia. Per una strana combinazione,Brad Mehldau si trovò bloccato con la sua famiglia in Olanda, dove registrò dodici composizioni fresche di conio che riflettono tutta l’ansia ed il turbamento di quei momenti di isolamento, aggiungendo al progetto tre cover a lui molto care: «Don’t Let It Bring You Down» di Neil Young «New York State Of Mind» di Billy Joel e «Look For The Silver Lining» di Jerome Kern che furono rilette con un apparente disagio emotivo ed avvolte in una pellicola di patema e di inquietudine universale. Il disco nasce come una sorta di instant book, un diario sonoro sulle preoccupazioni e l’incertezza di quei giorni che avevano messo l’umanità intera sotto una cappa di paura, a causa di un nemico infido e strisciante, di cui non si conoscevano le effettive cause ed i possibili rimedi. In quei frangenti fu soprattutto il mondo dell’arte in genere e della musica a subire le conseguenze di un «coprifuoco» generalizzato e necessario, ed a pagarne il prezzo più alto per circa due lunghi anni. Sembrava tutto ibernato in una capsula di dubbiosità, ma non s’intravedeva minimamente una via d’uscita. Molti jazzisti reagirono alle avversità attraverso le valvola di sfogo dell’atto creativo, in cui si liberano demoni e sostanze sulfuree. Tanti dischi, concepiti durante quei mesi di interruzione dalle attività di routine, sono avvolti da una lucida patina di sofferenza e da una potenza espressiva non comune, a testimonianza che dalla sofferenza, senza generalizzare, nascano sempre piccoli capolavori.
Mi sono spesso chiesto se un concept come «Suite: April 2020» di Brad Mehldau, imbustato in quella dimensione di restrizioni, solitudine e di indagine profonda, oggi, in cui il mondo si è «liberato dalle catene», potesse avere un senso ed accendere ancora un quadro emozionale. Mi è bastato porre, bulimicamente, l’album sul giradischi per tre volte di seguito e divorarlo con avidità, per essere travolto da una ventata di vibrazioni positive, forse perché sfrondate dal carico di tensione in cui il disco fu concepito; senza contare che chi scrive non è un amante del piano solo per partito preso. Ciononostante si ha conferma che la buona musica non abbia limiti spazio-temporali, e che forse in «Suite: April 2020» ci sia un Brad Mehldau più sorgivo di quanto non sia quel pianista che programma in maniera mercuriale un tributo alla musica dei Beatles, che al netto del tasso tecnico e della bravura interpretativa, resta un vanitoso orpello manieristico e neppure così originale. In «Suite: April 2020» c’è invece un uomo in trappola con i suoi incubi e le sui incertezze, a cui l’uomo-musicista risponde attraverso un lirismo profondo e abissale che fa del costrutto sonoro un passaporto per l’eternità, perché i sentimenti umani sono uguali in ogni epoca. Ciò che accomuna la specie umana non sono, però, il successo, la ricchezza, i traguardi, quelli sono personali, ma la paura, l’insicurezza, le malattie, i dubbi, la precarietà, soprattutto la consapevolezza di essere sulla terra tutti pro-tempore ed in balia del destino. Come sempre, il tocco aggraziato di Mehldau continua a farci riflettere profondamente. I titoli di certe composizione hanno un nome appropriato, come «III. Keeping Distance», «V. Remembering Before All This e «VI. Uncertainty», soprattutto ciascuna di esse si concentra su pensieri e ricordi individuali che si riflettono una tensione universale. Un esempio lampante viene dal componimento finale, «Look For The Silver Lining», uno standard di Jerome Kern, in cui Mehldau termina intenzionalmente sull’accordo di quinta, lasciando il suono ed il mood in uno stato d’incertezza e di interminabile time-out. Il pianista dichiarò che «Suite: April 2020» fosse un’istantanea musicale della vita dell’ultimo mese nel mondo in cui ci siamo trovati. «Ho cercato di rappresentare – aggiunge Mehldau – al pianoforte alcune esperienze e sentimenti che sono sia nuovi che comuni a molti di noi. In «Keeping Distance», ad esempio, ho tracciato l’esperienza di due persone che si allontanano socialmente, rappresentate dalla mano sinistra e dalla mano destra e di come si allontanino in modo innaturale, pur rimanendo legate in qualche modo inspiegabile e forse illuminante. Per quanto il COVID-19 sia stato difficile per molti di noi, sono emersi momenti di rivelazione lungo il percorso: «Stopping, Listening, Hearing» evidenzia anche questo momento».
Per l’11 luglio, all’Arena santa Giuliana, in occasione di Umbria Jazz 2023, Mehldau ha scelto la modalità trio, insieme al contrabbassista Larry Grenadier e al batterista Jeff Ballard; il formato sicuramente più congeniale al suo pianismo evansiano, basato su un interplay equilibrato, ripartito e privo di supremazia strumentale: di certo, il pubblico non mancherà di tributargli consensi ed approvazione.
