// di Francesco Cataldo Verrina //
Elettrica e maliarda appare la magnifica illusione di due mani che si sfidano sui tasti: in quel riflesso sul pianoforte c’è qualcosa di stupefacente da vedere. Nel sesto decennio della sua carriera, Hancock non perde una nota, un battito o un passo, un cambio di tempo o di mood. Al contrario, le sue dita rivelano una destrezza e una potenza che lascia senza fiato, come se il tempo non fosse mai passato. Herbie Hancock ha 83 anni come Bob Dylan, ma diventa il riscatto e la rivincita del popolo del jazz convenuto all’Arena Santa Giuliana. Herbie Hancock è una vera icona della jazz nell’accezione più larga del termine. Nel corso delle sue esplorazioni e sperimentazioni ha trasceso e trasgredito limiti, vincoli e generi, inventando nuove regole d’ingaggio, ma soprattutto ha conservato una voce strumentale inconfondibile, nell’arco di una carriera che abbraccia sei decenni, segnata da innumerevoli successi e coronata da quattordici Grammy Awards e varie nomination all’Oscar per le sue colonne sonore.
Il ragazzo di Chicago dall’aria intellettuale, approdato timidamente alla Blue Note agli albori degli anni Sessanta, è tornato nuovamente ad incantare il vero popolo di Umbria Jazz. Con Hancock non c’è trucco non c’è inganno, e ciò che lascia di stucco è la sua naturalezza sul palco, il suo disincanto, la sua generosità. Più dell’asettico e ibernato Dylan da quattrocentomila euro, egli ha banchettato con gli Dei, con i massimi tenutari del Pantheon della musica del Novecento, sebbene la miserabile e truffaldina cultura eurocentrica abbia sempre riservato ai musicisti di colore un posto ancillare e subordinato. Nonostante il jazz sia l’unica espressione di arte popolare di derivazione africano-americana oggi considerata al pari della musica classica, i media nazionali, in massima parte, tacciono sulla presenza di personaggi come il pianista di Chicago sul suolo italico, mentre molti mezzi d’informazione locale si limitano ai comunicati stampa forniti dagli organizzatori.
L’ensemble di Herbie Hancock riflette la sua genialità. Oltre a essere un trombettista da Oscar Terence Blanchard è l’uomo della propulsione in prima linea, colui che espande e ricama le melodie tracciate al piano dal band-leader. James Genus, bassista dal tocco energico e dal walkin’ melodico, fornisce un inesorabile groove dalla retroguardia: estro e costanza sono le sue carte vincenti con cui spinge in avanti il convoglio senza deragliamenti, fornendo la spina dorsale ritmica, con la complicità del batterista, Jaylen Petinaud, il membro più giovane del line-up; dal canto suo Lionel Loueke conferisce un sapore afro-caraibico al suo modo di suonare la chitarra. Ricoprendo il doppio ruolo, sezione ritmica e front line, egli apporta essenze e nuances esotiche e multi-etniche alla bisogna. La platea percepisce che Herbie e suoi sodali hanno voglia di divertirsi e che sono tutt’altro che avari nello stabilire, almeno nel cercare, un’empatia con il pubblico, mantenendo quasi un’atmosfera da jam session. Il jazz è anche fisicità, quasi un full contact tra chi suona e chi ascolta: tutto ciò è nei filamenti di DNA delle blackness.
La band rende omaggio a Wayne Shorter, morto il 2 marzo 2023, a 89 anni, membro fondatore dei Weather Report, compagno di tante avventure di Hancock alla corte Miles Davis e non solo. “Footprints”, è uno standard di Shorter, che il pianista ha sempre amato portare nei suoi concerti, lo ha eseguito anche lo scorso anno. Questa volta c’è un velo di amarezza tra le note, nonostante la performance sia perfetta. Herbie Hancock è costantemente espansivo e non intrappola mai i suoi compagni di viaggio, concedendo a ciascuno di essi il proprio spazio espressivo ed espositivo. Del resto il jazz senza interplay, contrappunto, scambio, call and response, non avrebbe motivo di esistere. Da sempre Herbie Hancock, musicista e compositore di immenso talento, anticipatore per corredo genetico, leader nell’innovazione e nella contaminazione, ha esercitato un’influenza incommensurabile sullo sviluppo dei diversi stili, linguaggi e metalinguaggi del jazz, del rock e del funk. Il pianista alle prese con le sue diavolerie elettroniche riesce a far sentire vecchi perfino i nuovi rapper e trapper, ricordando loro, indirettamente, di essere stato uno dei primi utilizzatori di vocoder, nonché ad applicare flanger ed autotune alla voce. A ottantatré anni suonati, Hancock non disdegna di ricercare ed esplorare inedite sonorità e di usare filtri ed effetti, i quali continuano a portare la musica verso un indefinito altrove. Il pubblico lo approva, ne riconosce il talento e la coerenza. Il pianista di Chicago è stato uno dei primi innovatori a muoversi sulla scia della svolta elettrica di Miles Davis. Herbie Hancock è comunque il dominus della serata: sul palco suona, dirige, imbocca i sideman, si alza, canticchia: a volte è più funk, altre volte più jazz, qualche volta rock. Egli rappresenta l’epitome di un jazz irrequieto, che si muove, si spacca, si frantuma, si rinsalda, si mescola, si evolve ma che, soprattutto cattura lo spirito dei tempi. Quello di Herbie Hancock è sempre un “Maiden Voyage” (viaggio inaugurale) che si ripete da circa sessant’anni. L’afflato tra l’artista e la platea si compie in maniera del tutto spontanea, senza sacralità e senza quella fastidiosa distanza tra l’io e il voi, che tanto piace ai sudditi del Bob Dylan di turno.